mercoledì 17 aprile 2024

IL RACCONTO DI PEUW, BAMBINA CAMBOGIANA

 

Lo ho letto una prima volta tanti, tanti, anni fa. Ero giovane davvero allora, non “diversamente giovane” come oggi, e la sua lettura diede il colpo definitivo, emotivo e non solo intellettuale, al mio sempre più vacillante marxismo. Poi, anni dopo, non so come, forse durante un trasloco, ho perso quel libro: “Il racconto di Peuw, bambina cambogiana”. Lo ho cercato in tutte le librerie, poi in rete, nulla da fare, era introvabile. Nelle italiche librerie si possono facilmente trovare i capolavori di Fabio Volo e Michela Murgia ma il diario di Peuw, quello no, quello è introvabile.
Lo ho alla fine scovato in rete, di seconda mano, in una sconosciuta libreria, di Torino mi pare. Lo ho immediatamente comprato e lo ho riletto, dopo tanti, tanti anni. E mi ha fatto ancora più impressione.
Nell’Aprile del 1975 i Kmer rossi, i comunisti cambogiani guidati da Pol Pot, entrano vittoriosi a Phnom Penh ed inizia per il popolo cambogiano una autentica traversata dell’inferno.
Le città vengono svuotate, dall’oggi al domani milioni di esseri umani sono mandati nelle campagne a compiere lavori mai fatti in precedenza, praticamente privi di qualsiasi attrezzatura. Peuw una bambina di 12 anni, è fra questi. Il suo racconto ci descrive il suo peregrinare nell’inferno. Le terrificanti marce verso i luoghi di destinazione, il lavoro massacrante cui è sottoposta, in condizioni proibitive. Immersa fino alla cintola in stagni o risaie, spesso infestati da serpenti, sempre da sciami di insetti che non danno tregua. Priva di attrezzi o munita di attrezzi che richiamano l’età della pietra lavora per 12 o 16 ore al giorno. I nuovi schiavi alloggiano in capanne che loro stessi devono costruirsi, nelle ore di “riposo”, dopo il lavoro dedicato alla “Kampucea democratica”, così Pol Pot denomina la nuova Cambogia. Tutto è vietato, anche cercare un po’ di cibo, mangiare qualche frutto che si trova nella foresta. Tutto deve essere collettivo, tutto va consegnato ai “mekong”, i sorveglianti dei campi di lavoro forzato che provvedono poi alla giusta distribuzione delle vivande. Quando le cose vanno bene i nuovi schiavi ricevono un mestolo di brodaglia per “pranzo” e un altro per “cena”, tutto qui. La fame è una delle protagoniste del libro: una fame feroce, spietata, che distrugge i corpi ed insieme le anime, una fame che fa risorgere su larga scala il cannibalismo.
Ed un altro protagonista sono le malattie. Il colera stronca la vita di una quantità enorme di esseri umani, Peuw ne è colpita e si salva letteralmente per miracolo. Molto spesso continua a lavorare anche afflitta da febbre alta, squassata dalla diarrea. Lo fa per una ragione molto precisa: i “mekong” concedono generosamente ai malati di non lavorare… solo… solo che da buoni seguaci del comunismo staliniano-leniniano mettono in atto una delle parole d’ordine di Vladimir Lenin: “chi non lavora non mangia”. E i malati che non lavorano NON mangiano, anche il mestolo di riso in brodaglia è loro negato, non mangiano e muoiono di fame, fra i loro escrementi. Una donna torna al lavoro tre giorni dopo aver partorito, e non ad un comodo lavoro d’ufficio, di fronte ad un PC, no, nelle risaie, semi immersa nell’acqua con insetti velenosi nelle vicinanze…
Tanto lavoro per cosa? Per costruire colossali opere pubbliche? Edificare un paese migliore? Nemmeno per sogno. I lavori cui sono sottoposti i nuovi schiavi sono del tutto inutili. Peuw racconta della costruzione di una “strada”. Il lavoro consisteva nel togliere, con le mani, il fango che copriva una gran pianura, nello scavare sino a che il terreno non sembra un po’ più compatto accatastando il fango ai lati della striscia di terra che in questo modo si riusciva a formare. Quella striscia di terra era la “strada”. Bastava un po’ di pioggia ovviamente per distruggerla. A questo serviva il lavoro schiavo cui erano costretti milioni di cambogiani.
In quattro anni, dal 1975 al 1979 sono morte in Cambogia dai due ai tre milioni di persone, su una popolazione che non raggiungeva i 12 milioni di esseri umani: da oltre un sesto ad oltre un quarto dell’intera popolazione di quello sventurato paese. Applicate ad un paese come l’Italia quelle percentuali si tradurrebbero in 10 o 15 milioni di morti, probabilmente di più. Queste le dimensioni terrificanti di una delle esperienze più mostruose della storia.

A prima vista la tragedia cambogiana sembra, più di altre, inspiegabile, frutto di pura follia. Ma sarebbe un grave errore ridurre tutto a follia; certo, l’esperienza cambogiana è folle, ma dietro a quella follia c’è qualcosa di molto reale, che ha un nome preciso, si chiama ideologia.
I Kmer rossi sono comunisti cambogiani, i combattenti sono contadini semi analfabeti, i loro leader però si sono formati in occidente, Pol Pot studiò per tre anni a Parigi e lì, nella capitale francese, si avvicinò al marxismo leninismo. E lo mise in pratica quando i suoi Kmer riuscirono ad impadronirsi del potere.
Lo mise in pratica correttamente? Beh… il massacro del popolo cambogiano è stato preceduto da altri massacri di immani dimensioni messi in atto da leader comunisti, basti pensare all’Holodomor ucraino o al gran balzo in avanti in Cina. Anche qui milioni e milioni di morti, anche qui ricomparsa del cannibalismo. Tengo a sottolineare che in questa sede non mi occupo di altri mostruosi genocidi, tristemente primo fra tutti quello del popolo ebraico messo in atto dai nazisti.
La mostruosità cambogiana non si riduce a semplice follia: si tratta di una follia ideologica. Pol Pot cerca di mettere in atto integralmente l’utopia del marxismo leninismo e di risolvere, mettendola in atto, una delle principali contraddizioni che in essa si annidiano: quella relativa alla continuità del corso storico.
Esiste una continuità nel corso della storia, qualcosa di positivo che passa, pur nei salti e nelle discontinuità, da una generazione all’altra? Un legame che ci permette di riconoscerci in una tradizione, un divenire che lega i tempi che viviamo a quelli di chi ci ha preceduto? Oppure questa continuità non esiste e la rivoluzione che Marx preconizza segna una discontinuità assoluta, una rottura radicale con tutta la tradizione storica, col conseguente rifiuto di tutto ciò che gli esseri umani hanno costruito nel corso dei secoli e dei millenni?
Marx capisce l’importanza del problema: negare ogni continuità nel corso storico significa fondare sul nulla la rivoluzione, recidere le radici che legano in qualche modo la rottura rivoluzionaria con la storia precedente, col risultato di cadere in quello che Marx stesso chiamava sprezzantemente l’utopismo rivoluzionario: la rivoluzione cessa di essere un prodotto della storia per diventare il risultato di una mera azione volontarista.
Sappiamo come Marx cerca di risolvere il problema: esiste per lui una continuità nel corso storico e questa è rappresentata dallo sviluppo delle forze produttive sociali. La scienza e la tecnica sono oggi usate in maniera capitalistica, servono a sfruttare la classe operaia, ma domani, in una organizzazione sociale nuova, potranno avere un uso positivo e liberatorio. Lo sviluppo delle forze produttive lega in qualche modo la società perfetta di domani alla alienante società di oggi. La rivoluzione cessa di essere il risultato di un volontarismo privo di radici e diventa la tappa finale di un corso storico predeterminato.
La soluzione però è più apparente che reale. Marx infatti riduce drasticamente l’uomo alla sua componente storica e socio economica. E riduce a sua volta questa, integralmente, ad alienazione, oppressione e sfruttamento. Se si aggiunge che il materialismo storico marxiano fa delle attività spirituali dell’uomo una sovrastruttura, riflesso della struttura socio economica, il tentativo di rinvenire una qualche continuità nel corso storico diventa disperato. Se tutto è società, se tutto dipende dalla dimensione economico sociale e se questa è integralmente basata su alienazione e sfruttamento quale continuità sarà mai possibile instaurare fra la società perfetta, il paradiso di domani e l’inferno di oggi?
La tensione presente nel marxismo fra la accettazione di una qualche continuità nel corso storico, affidata allo sviluppo tecnico scientifico, e la accentuazione esasperata della radicale discontinuità dello stesso, porterà ad una frattura alla lunga insanabile nel movimento operaio fra una componente gradualista e una rivoluzionaria. La prima, al termine di un travagliato percorso intellettuale metterà Marx in soffitta, la seconda sostituirà il pesante scientismo presente nel marxismo con un volontarismo esasperato e criminale.

I teorici della scuola di Francoforte, fra i principali ispiratori del movimento del ‘68, metteranno però in evidenza come un po’ tutte le componenti del marxismo sottovalutino in qualche modo la radicalità della rottura rivoluzionaria. Anche i rivoluzionari infatti conferiscono valore oggettivo, quindi sostanzialmente extra sociale, alla scienza e alla tecnica. Lenin definisce il socialismo come i soviet più l’elettrificazione e in “materialismo ed empiriocriticismo” difende una concezione della conoscenza certamente ingenua e dogmatica ma che non nega il valore conoscitivo della scienza, al contrario. Per i teorici della scuola di Francoforte è invece profondamente sbagliato parlare di “uso capitalistico della scienza e della tecnologia”, come se esse potessero essere usate in modo diverso. E’ la stessa struttura quantitativa della scienza ad essere funzionale ad un sistema basato sullo scambio di equivalenti, quindi sulla universale quantificazione di tutto. Non esiste una tecnica neutrale che possa essere utilizzata a fini diversi da diverse classi sociali: la tecnica è espressione coerente cdi un sistema basato sulla oppressione di classe, come lo sono l’arte, la filosofia, la letteratura. Nulla è, sotto nessun punto di vista “neutrale”. Una rivoluzione che accetti in qualche modo una qualsiasi forma di continuità storica è inesorabilmente destinata a degenerare. La vera colpa di Stalin non è stata quella di aver distrutto ogni forma di libertà civile e politica, no, il suo vero “errore” sarebbe stato quello di avvalersi di metodi produttivi sostanzialmente “capitalisti” (a dire il vero nessuna esperienza di accumulazione capitalistica ha portato al risorgere del cannibalismo, ma questi per molti intellettuali raffinati sono dettagli).
Il movimento del ‘68 farà proprio, esasperandone al massimo gli aspetti più deteriori, questo minestrone di utopismo e mentalità antiscientifica. La rivoluzione diventa “contestazione globale” e comprende tutti, ma proprio tutti gli aspetti della vita umana. Dal lavoro al linguaggio, dai sentimenti alle passioni. Ragione, sentimenti, pulsioni sessuali, gusto estetico tutto deve cambiare, ruotare di 180 gradi. Nulla lega l’uomo nuovo, meglio sarebbe dire l’angelo, comunista al vecchio, deforme uomo della società capitalista. Ogni radice va spezzata. Non a caso i “sessantottini” vedranno il loro ispiratore nel Mao della “rivoluzione culturale”, un tragico, mostruoso episodio di nichilismo totalitario che ha gettato nel caos il paese più popoloso del mondo.

Ovviamente gli intellettuali ed i contestatori del ‘68 erano poco coerenti. Nemici del benessere avevano spesso conti in banca di tutto rispetto, negavano ogni valore a scienza e tecnologia ma viaggiavano in aereo e se malati facevano ben volentieri uso della aborrita medicina borghese. Non così i Kmer rossi di Pol Pot. A differenza dei raffinati frequentatori dei salotti buoni della sinistra occidentale i loro leader presero sul serio i filosofemi dei vari Adorno e Marcuse e li misero in pratica, senza riguardo alcuno, per nessuno.
Le città sono covo di corruzione, i Kmer svuotarono le città. La famiglia è una istituzione borghese e repressiva, i Kmer separarono le mogli dai mariti, i genitori dai figli. La cultura, l’arte, la scienza servono a perpetuare lo sfruttamento e l’oppressione di classe, i Kmer fucilarono gli “intellettuali”, cioè che aveva frequentato anche solo le scuole elementari; i loro capi erano ovviamente esclusi, la loro, non si sa bene perché, era una cultura “proletaria”. La religione è alienante, i kmer distrussero magnifici templi e pagode, e fucilarono chi osava pregare. Il linguaggio è classista, i Kmer imposero a tutti un nuovo linguaggio “non classista”. La tecnologia è strumento del dominio di classe, i Kmer obbligarono milioni di esseri umani a lavorare come schiavi praticamente privi di strumenti. L’individualismo è il male assoluto, i kmer collettivizzarono tutto, comprese pentole, piatti e scodelle e obbligarono tutti a vestire nello stesso modo, in orribili camicioni e pantaloni neri. La frattura fra vecchio e nuovo è totale, radicale, insanabile, i Kmer vollero ripartire da zero, senza sconti per nessuno.
Nell’esperienza cambogiana l’utopia comunista si rivela per quello che è e non può non essere: una utopia assassina.
La natura umana e la società possono essere gradualmente modificate ma non rivoltate di 180 gradi, il nuovo non può che innestarsi sul vecchio, nessuna innovazione può partire dalla negazione totale di ciò che la precede. Ogni individuo ama se stesso ed ha la tendenza a godere privatamente di un certo numero di beni; è a partire da questo che ognuno di noi può amare e rispettare gli altri. Negare questo carattere fondamentale della natura umana, annegarlo in un collettivismo abbruttente significa distruggere l’uomo.
Ripartire da zero è impossibile, meglio, è possibile solo se milioni di esseri umani, la società tutta, sono sottoposti a mostruose forme di violenza, solo se un pugno di fanatici, armati sino ai denti e pervasi da una ideologia nichilista, dichiarano guerra alla società, alla società nel suo complesso ed impongono a questa la loro volontà spietata.
Il comunismo reale, cioè l’unico possibile, è stato precisamente questo: una lunga, spietata guerra del partito al potere contro la società. Contro la borghesia, gli intellettuali, gli strati intermedi, contro i contadini, massacrati a milioni da Stalin e Mao, contro gli operai che nella propaganda di regime avrebbero dovuto essere i veri beneficiari del cambiamento rivoluzionario e si trovarono a dover subire forme di sfruttamento inimaginabili anche nel peggiore dei sistemi capitalistici.
In Cambogia questa guerra del partito contro la società assunse le forme più mostruose, i Kmer rossi furono coloro che più di ogni altro portarono la loro ideologia nichilista alle sue tragicamente coerenti conseguenze.
Furono coerenti Pol Pot e i suoi kmer, fecero ciò che molti raffinati intellettuali occidentali, molti cattivi maestri, si limitarono a teorizzare evitando attentamente, nelle loro teorizzazioni, di trarre, anche anche solo a livello teorico, le conseguenze di quanto dicevano.
Se la tecnologia non ha nulla di neutrale, è solo espressione del dominio di classe, perché viaggiare in auto invece che a piedi? Se la medicina serve solo alle case farmaceutiche perché assumere farmaci? Se la famiglia è solo una istituzione repressiva perché non separare i figli dai genitori? I Kmer rossi misero spietatamente in pratica i filosofemi di tanti cattivi maestri, ebbero il tragico, criminale coraggio della coerenza, quello che, per venire all’oggi, manca agli attuali riformatori politicamernte corretti del linguaggio ed ai teorici della cancel culture.
Per questo è importante sapere cosa ha significato per milioni di esseri umani la loro politica criminale, per questo sarebbe importante che tutti leggessero un libro come “il racconto di Pew bambina cambogiana”. Purtroppo questo libro prezioso è oggi praticamente introvabile.
Chissà, forse non si tratta di una caso.

venerdì 16 febbraio 2024

INNOCENZA O COLPEVOLEZZA DEI POPOLI

 

Lo si sente dire spesso: i popoli sono innocenti, non possono essere considerati responsabili delle nefandezze dei loro governi. Sembra una affermazione di buon senso, ma… le cose stanno davvero così?
I popoli non sono super persone, misteriose entità metafisiche che annullano le differenze individuali. Fanno parte di un popolo persone con idee, interessi, valori diversi, spesso profondamente diversi. In questo senso parlare di innocenza o colpevolezza dei popoli è completamente sbagliato, come sono sbagliati, anzi, criminosi i propositi di vendetta sui popoli per crimini e delitti commessi da una parte degli stessi. La responsabilità giuridica e morale è sempre individuale, questo è uno dei principi base della nostra civiltà cui è bene attenersi, sempre.
Però i popoli esistono. Non come super persone ma come entità collettive, insiemi di esseri umani uniti da un linguaggio, una storia, una tradizione, usi, costumi, abitudini. E capita a volte che queste entità collettive si ammalino, facciano proprie ideologie assassine o portino alle estreme conseguenze gli aspetti negativi di ideologie, fedi religiose, modi di vedere il mondo. Certo, queste malattie dell’anima non riguardano mai tutti i membri di un certo popolo, cultura o fede, ne possono infettare però settori estremamente ampi, sua pure in maniera differenziata. Non tutti i tedeschi erano nazisti, né tutti i tedeschi che simpatizzavano per il nazismo erano equiparabili ai criminali che conducevano gli ebrei alle camere a gas, tuttavia l’ideologia criminale del nazismo infettava in profondità il popolo tedesco. Durante la notte dei cristalli c’erano i criminali che spaccavano le vetrine dei negozi retti da ebrei, c’era chi applaudiva, chi si voltava dall’altra parte, chi non approvava ma taceva, chi infine si opponeva, ma si trattava di esigue minoranze. Il popolo tedesco era ammalato di nazismo, questo non lo rendeva tutto egualmente responsabile dei crimini nazisti, ma lo esponeva comunque alle conseguenze della malattia che lo aveva travolto.

Il punto è proprio questo: le vendette a danno dei popoli sono inammissibili ma questo non implica che i popoli non debbano mai subire le conseguenze delle loro scelte collettive, sia pure non unanimi.
Moltissimi tedeschi hanno appoggiato Hitler. La gran maggioranza di loro ha finto di non vedere le persecuzioni cui il tiranno nazista sottoponeva gli ebrei e non solo loro. Masse enormi di tedeschi hanno applaudito freneticamente quando le armate naziste hanno conquistato la Polonia, la Francia, l’Ucraina. Poi le cose sono cambiate ed il popolo tedesco ha dovuto patire sofferenze enormi. Sarebbe stato giusto chiedere ai nemici della Germania nazista di non attaccarla perché i loro attacchi coinvolgevano inevitabilmente anche persone che nulla avevano fatto di male? Dal fatto che un popolo non debba subire vendette collettive deriva che lo stesso popolo possa evitare di essere coinvolto nelle conseguenze delle politiche che una sua parte importante ha comunque avallato? Basta fare la domanda per avere la risposta, credo.
Si possono fare considerazioni simili riguardo a quanto sta avvenendo oggi a Gaza.
Non tutti i palestinesi sono terroristi, è vero, però una parte cospicua dei palestinesi approva gli atti dei terroristi, li incoraggia, li applaude. Altri fingono di non vedere, altri ancora, pochi probabilmente, sono in disaccordo ma non possono opporsi. Dopo gli attentati dell’undici settembre a Gaza sono stati in moltissimi a festeggiare, lo stesso è avvenuto dopo il 7 ottobre. Questo non rende collettivamente “colpevoli” i palestinesi, non li deve esporre a vendette collettive, ma non può neppure esonerarli dal subire le conseguenze di una politica che tanti di loro hanno avallato.
E’ bene saperlo: quando parti importanti di un popolo avalla ideologie assassine e quando queste ideologie assassine si traducono in concrete azioni criminali tutto il popolo interessato ne subisce le conseguenze, purtroppo.
Questo è uno dei motivi più importanti per opporsi con tutte le forze alle ideologie assassine. Sempre, a tutti i livelli. Dovrebbero pensarci bene gli intellettuali, veri o presunti, che per le ideologie assassine hanno una incredibile, e vomitevole, simpatia.

mercoledì 14 febbraio 2024

lunedì 5 febbraio 2024

LO STUPRO DI CATANIA

 

In occasione dello stupro di Catania è ricominciata la solita, asfissiante polemica sulle generalizzazioni. “Dal fatto che sette ragazzi egiziani commettono uno stupro non si può dedurre che tutti gli egiziani siano stupratori, chi lo sostiene è un razzista” ha detto qualcuno. Cosa rispondere a questa constatazione, tanto vera quanto banalmente ovvia?
Procedo per punti.
1) E’ verissimo che sarebbe una idiozia affermare che siccome sette egiziani hanno commesso uno stupro tutti gli egiziani sono stupratori, penso infatti che nessuna persona sensata sostenga una tesi tanto assurda. Però… però chi oggi strilla contro simili generalizzazioni ha sostenuto ieri generalizzazioni ancora più assurde. Un mascalzone uccide la fidanzata e per questo io dovrei vergognarmi di essere maschio. Ce le ricordiamo simili generalizzazioni? Per molti che oggi strillano quelle erano lecite…
2) In realtà non si tratta di generalizzare o meno, di dare giudizi sommari su interi popoli. Si tratta di valutare certe culture diffuse in zone assai estese del pianeta, culture che considerano la donna che non accetta certi canoni di morale sessuale poco meno che una prostituta. Queste culture esistono e sono largamente egemoni in determinati paesi. Affermarlo non vuol dire essere “razzisti”, altrimenti sarebbe “razzista” ogni analisi dei fenomeni sociali e culturali, visto che ogni fenomeno sociale e culturale riguarda in maniera differenziata i vari paesi del mondo. Sarebbe “razzista” affermare che la mafia è un fenomeno storicamente siciliano (il che NON vuol dire che tutti i siciliani siano mafiosi) o che nella cultura confuciana le donne avevano un ruolo particolarmente subordinato (dal che non deriva che tutti i cinesi opprimano le donne).
3) Soprattutto lo stupro di Catania riguarda la politica delle porte aperte alla immigrazione clandestina. E’ ovvio che NON tutti i migranti sono degli stupratori, ma è altrettanto ovvio che se si permette a chiunque di entrare in Italia senza filtri, limiti e controlli, se si fanno entrare masse di disperati, tra l'altro senza essere in grado di offrir loro un lavoro ed una esistenza decenti, si creano inevitabilmente situazioni di degrado in cui non è un caso che avvengano episodi come quello di Catania. Accusare di “razzismo” chi sostiene cose simili è solo un ridicolo tentativo di nascondere una realtà che è sotto gli occhi di tutti.
4) Il modo migliore per alimentare il razzismo è proprio quello di negare la gravità della situazione, dire che “tutto va bene”, alimentare la melassa buonista sul dovere alla accoglienza illimitata, ripetere palle sul fatto che tutte le culture sono egualmente buone, con l’esclusione, ovviamente, della NOSTRA cultura. A tirarla troppo la corda si spezza, ed allora emergono davvero, purtroppo, cose molto, molto brutte.

domenica 4 febbraio 2024

FRA FILOSOFIA E POLITICA

 

La pagina Amazon in cui è in vendita "Fra filosofia e politica" - in difesa del finito.
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venerdì 26 gennaio 2024

GIORNATA DELLA MEMORIA

 

L’antisemitismo è un fenomeno vecchio di molti, molti secoli, di cui la Shoah è stata la manifestazione ultima e di gran lunga più mostruosa.
Ha infettato ad occidente un po’ tutte le culture. C’è stato un antisemitismo cristiano ed uno musulmano, un antisemitismo di destra ed uno di sinistra. Gli ebrei non sono stati accusati solo di “deicidio”, per molti sono stati i rappresentanti del più bieco spirito mercantile, espressioni viventi del capitalismo sfruttatore, per altri gli stessi ebrei sono stati l’anima del comunismo ateo. Hitler, nel momento stresso in cui definiva il bolscevismo un “fenomeno ebraico” accusava gli “strozzini ebrei” di affamare il popolo tedesco.
Cercare di capire il perché di un fenomeno tanto vasto e diffuso è difficile. Forse molti esseri umani non amano chi, diverso da loro, mantiene una propria identità culturale. Non lo amano anche se è perfettamente integrato nelle società in cui vive e dà alle stesse un contributo culturale che è quasi impossibile sopravalutare. Chissà, forse PROPRIO PER QUESTO non lo amano.
In ogni caso, quali che ne siano i motivi, il fenomeno è esistito ed esiste ed ha esposto gli ebrei a persecuzioni senza fine.
Dal 1948 però le cose sono cambiate. L’antisemitismo continua ad esistere, a volte abilmente mascherato altre esplicito, ma ora massacrare ebrei è infinitamente più difficile che in passato.
Questo non solo perché nelle democrazie occidentali all’odio per gli ebrei moltissimi, per fortuna, contrappongono i valori della libertà e della democrazia, ma anche perché oggi gli ebrei non sono un popolo sparso per il mondo, un fluttuante insieme di minoranze esposte al pericolo di venire travolte da qualche ondata di fanatismo. No, oggi gli ebrei hanno il loro stato, piccolo ma sviluppatissimo, con un suo sistema di alleanze, dispongono di un esercito di prim’ordine, sono capaci di rispondere alle aggressioni dei loro nemici. L’epoca degli ebrei condotti come pecore ai forni è finita per sempre.
Così, non a caso, l’odio per gli ebrei si è trasformato in odio per il loro stato: lo stato di Israele.
Israele è l’unico stato al mondo di cui si discute se ha o non ha il diritto di esistere.
E’ circondato da nemici che desiderano solo una cosa: la sua distruzione.
E’ in guerra da 76 anni ed è obbligato a vincere tutte le guerre che altri lo hanno costretto a combattere. Se fosse sconfitto sarebbe semplicemente cancellato dalla faccia della terra.
Rifiuta di essere distrutto e combatte per non farsi distruggere. Questo basta a qualcuno per accusarlo di “genocidio”.
Chi oggi piange per le vittime della Shoah senza pronunciarsi chiaramente a favore del diritto di Israele di esistere in sicurezza e difendersi dalle aggressioni è un ANTISEMITA.
Punto e basta.

sabato 20 gennaio 2024

BRANI DA "FRA FILOSOFIA E POLITICA"

 

Alcuni brani tratti da scritti presenti in “Fra filosofia e politica”

Da: “La morale di Kant”

… La possibilità di universalizzare una norma è un elemento essenziale della morale. In assenza di questo elemento la morale degenera inevitabilmente nel relativismo o nella stucchevole morale dei buoni sentimenti che ne costituisce spesso l’anticamera. Ognuno ha la sua morale perché ognuno ha la sua scala di valori. (...)

Ma l’universalizzazione non può essere fine a se stessa. In sé la possibilità di universalizzare un imperativo non basta a renderlo buono. Se l’imperativo “uccidetevi a vicenda” fosse universalizzabile non sarebbe per ciò conforme alla morale. Un imperativo è davvero morale quando ci comanda di rispettare universalmente qualcosa che è positivo per l’uomo, che gli consente di svilupparsi liberamente. E’ morale rispettare la vita, la libertà, l’autonomia degli esseri umani e la norma che ci impone di farlo non vale solo per me o per pochi altri, magari per i miei amici ed i miei familiari. La forma universale dell’imperativo morale vieta l’autoesenzione, non consente che qualcuno possa riservare a se solo qualche diritto o possa ritenersi esentato dall’obbligo di fare ciò che il dovere impone. Proprio per questo pone dei limiti alle nostre azioni, ci impedisce di violare i diritti degli altri e può impedircelo precisamente perché questi diritti sono universali, (...) La forma universale che deve assumere la norma morale è quindi essenziale, ma lo è in quando difende e tutela universalmente cose che riguardano gli esseri umani in carne ed ossa, persone empiricamente determinate che vivono qui ed ora nel mondo (o che ci vivranno)….


Da “La logica di Hegel”

...Il tentativo di Hegel di “superare” il principio di non contraddizione e con esso la logica solo formale, la conoscenza finita e la stessa umana finitezza hanno però un esito del tutto insoddisfacente.

In primo luogo Hegel ritiene di non dover nulla all’esperienza sensibile ma è invece enormemente debitore nei suoi confronti. Tutti i passaggi “logici” con cui Hegel tenta di “dedurre” dal puro pensiero il suo contenuto sono presi di peso dall’esperienza, dalla scienza del suo tempo o dall’esperienza storica. Hegel cerca di dare forma di divenire razionale a ciò che è e resta irrimediabilmente dato. (…)

In secondo luogo (e questa è forse la cosa più grave) il sistema di Hegel sembra costantemente avvilupparsi su se stesso, girare a vuoto. A si definisce tramite B e B tramite A, ma, qual è il significato reale, comprensibile, di A e di B? B rimanda ad A, A rimanda a B, il vero di entrambi è nella sintesi, nella totalità dinamica di questi rimandi, ma né A, né B né la loro sintesi riescono in questo modo a dare di se stessi un significato definito. Se non avessimo già un qualche concetto di cosa siano A e B potrebbe questo esserci dato dal gioco di rimandi, di affermazioni e negazioni in cui si risolve la dialettica hegeliana? No evidentemente. Ed ancora, come può un ente “trapassare” nell’altro, “accennare” all’altro se è in questo “trapassare”, in questo “accennare” che l’ente diventa ciò che è? Come può A relazionarsi con B se ciò che A significa è il risultato della relazione con B?
(…) Il principio di non contraddizione ci permette di relazionare gli enti fra loro ma impedisce ad un ente di passare nell’altro, di essere nel contempo se stesso e l’altro, l’altro e se stesso. Per questo il principio di non contraddizione, a differenza del principio di contraddizione, è il fondamento stesso del discorso sensato e comprensibile...


Da “Alienazione seconda parte Marx”

...Trasformando in enti logici gli enti reali la dialettica impone alla storia un corso predeterminato e totalmente illusorio, lontano anni luce dalla scienza di cui i marxisti affermano essere sostenitori.
La alienazione rappresenta una fase di questo processo predeterminato, fase necessaria, destinata però ad essere superata. Uscito da se l'uomo torna a se, recupera la sua essenza umana dopo averla perduta. Ma proprio qui nascone le contraddizioni. Come può un ente che è fuori di se, un ente alienato, desiderare il superamento della sua condizione alienata? L'uomo alienato
non è, val la pena di ripeterlo, un uomo oppresso, tenuto in catene, impossibilitato a sviluppare quanto di meglio c'è in lui. Un uomo tenuto prigioniero può desiderare e desidera liberarsi dalle sue catene appunto perché queste lo opprimono in quanto ente positivo uomo. Ci si può ribellare contro qualcosa quando questo qualcosa opprime e limita ciò che siamo. Un uomo che vive in un abbruttente miseria desidera un certo livello di benessere, lo schiavo vuole essere libero, ognuno pretende il rispetto dei suoi simili. Ma si può desiderare il benessere, la libertà, il rispetto, proprio in quanto si è uomini. La propria umanità è il presupposto della lotta per la propria emancipazione. Ma l'uomo alienato non è propriamente un uomo, un ente positivo che desidera realizzare appieno la sua positività. E' un non uomo, un ente negativo che, appunto perché tale, ha desideri, aspirazioni, bisogni che appartengono per intero al suo essere negativo. I desideri, i bisogni, le aspirazioni di un ente negativo, alienato, non possono essere che il riflesso della sua alienazione, non possono contenere alcun anelito alla liberazione. Se desidero recuperare la mia essenza vuol dire che in realtà non la ho davvero persa…


Da “Sul materialismo storico e la presunta assoluta centralità dell’economia”

...Si
è fatto un accenno agli eventi distruttivi. In effetti questi sorgono spesso in ambiti che con l'economia hanno relativamente poco a che fare. Che le guerra abbiano sempre origine economica è ormai un luogo comune. Comodo luogo comune che serve ad assolvere, ad esempio, ideologia e religione che invece con la guerra hanno avuto a che fare spesso e volentieri.
Perché dovrei fare la guerra a Tizio per impossessarmi del suo denaro e non perché lo considero un mostro che per il solo fatto di esistere offende i miei sentimenti più profondi? Possono convivere due stati uno dei quali considera l'altro un ricettacolo di corruzione in grado di infettare, prima o poi, i suoi stessi cittadini? Pensare che ci si possa ammazzare solo per denaro è una variante dell'idea secondo cui l'unico obiettivo che gli esseri umani perseguono è la ricerca del benessere materiale, ma questo è, molto semplicemente, falso. Il fanatismo religioso o ideologico, l'odio nei confronti di certe razze o certi popoli, la convinzione assoluta che certi pseudo ideali
debbano comunque affermarsi, costi quel che costi, son tutte cose che esistono e non riguardano solo sparuti gruppi di intellettuali. Le fedi irrazionali, gli ideali assoluti, gli stessi grandi filosofemi totalitari, debitamente banalizzati e semplificati, diventano spesso luoghi comuni popolari, sentimenti diffusi a livello di massa, esaltanti obiettivi collettivi, con le ben note conseguenze. Si elimini la componente fideistica, ideologica dalla storia ed eventi come la shoah, l'eliminazione del kulak in quanto classe o il fondamentalismo islamico diventano inspiegabili. Certo, qualcuno trova sempre qualche pozzo di petrolio o qualche contratto commerciale che spiegherebbe tutto. Però, contratti commerciali se ne fanno ovunque, e ovunque c'è qualche appetibile materia prima. Non ovunque però ci sono guerre e massacri…


Da “L’ospite indesiderato”

...Esiste una autonomia del mondo dal soggetto? Il mondo esisteva prima che apparisse un qualsiasi soggetto senziente? E' evidente che nella
mia esperienza io sono in costante rapporto col mondo ed il mondo è in costante rapporto con me, ma il punto è: il mondo esiste solo nella mia esperienza o la mia esperienza mi rivela, in piccolissima parte, il mondo? Non appena il problema sia posto in questi termini esso inevitabilmente si amplia. Quasi tutti i soggettivisti parlano di soggetto ma usano poi spesso e volentieri il pronome “noi”. Parlano delle rappresentazioni “nell'uomo” ed intendono rappresentazioni in Tizio, Caio e Sempronio, addirittura si riferiscono alle rappresentazioni degli animali. Ma se il mondo è rappresentazione, se esiste solo in relazione al soggetto, a quale soggetto è relazionato? In chi è rappresentazione? Basta porre la domanda per avere la risposta: gli altri soggetti sono per me oggetti, oggetti esterni come le case ed i gatti; se il mondo esiste solo relazionato al soggetto esiste relazionato a me, è rappresentazione in me. Tutto il resto, compresi gli altri esseri umani esistono solo come mie rappresentazioni. Con quale fondamento allora posso parlare di Tizio, Caio e Sempronio come di soggetti senzienti distinti da me? Io vedo Tizio, parlo con lui, lo sento. Ma se Tizio esiste solo come rappresentazione in me posso ipotizzare che io sia a mia volta rappresentazione in lui? In realtà io non ho, non ho mai avuto e non posso avere la rappresentazione di Tizio che vede me come sua rappresentazione. Se io posso essere rappresentazione in Tizio allora Tizio non è, non può essere, solo rappresentazione in me, è, deve essere, almeno in parte, autonomo da me...


Da “Il coleottero di Wittgenstein”

...
Il linguaggio privato non distrugge solo la possibilità di un discorso intersoggettivo, rende impossibile anche il dialogo del soggetto con se stesso, mina l'unità dell'io pensante quindi anche la possibilità stessa del pensiero.
“Immaginiamo” scrive Wittgenstein sempre nelle
ricerche filosofiche, “una tabella che esista solo nella nostra memoria, per esempio, un vocabolario. Mediante un vocabolario possiamo giustificare la traduzione di una parola X con una parola Y. Ma sarà il caso di parlare di giustificazione anche quando questa tabella venga consultata solo nell'immaginazione? Ebbene, si tratterà appunto di una giustificazione soggettiva. Ma la giustificazione consiste nell'appellarsi ad un ufficio indipendente. (…) Non ci troviamo qui di fronte allo stesso caso? No; perché questo procedimento deve effettivamente evocare il ricordo esatto. Se non fosse dato controllare l'esattezza dell'immagine mentale dell'orario ferroviario, come potrebbe questa confermare l'esattezza del ricordo precedente? (sarebbe come acquistare più copie dello stesso giornale per assicurarci che le notizie in esso contenute siano vere)”. (7)
Il soggetto di Cartesio è solo con le sue sensazioni che si trasformano immediatamente in ricordi. Ogni controllo sulla esattezza dei ricordi si basa sul confronto fra un ricordo e l'altro, si tratta quindi di un controllo che non porta a nulla, non può garantire certezza alcuna, esattamente come comprare più copie dello stesso giornale non ci permette di verificare l'esattezza di quanto quel giornale riporta...


Da “Il cancro del politicamente corretto”

...Il liberalismo democratico rende compatibili universale e particolare, diritti dell
’uomo e tutela delle sue particolarità. L’impostazione politicamente corretta combina invece un universalismo fasullo che nega le particolarità ed un particolarismo di tipo tribale che nega i diritti universali. Cattivo universale e cattivo particolare insomma e loro combinazione nichilista. Più nello specifico l’impostazione politicamente corretta dà importanza all’universale laddove questo non dovrebbe avere rilevanza, da invece importanza al particolare laddove questo non conta, non può né deve contare.
L’universalismo democratico e liberale, ad esempio, non nega le particolarità nazionali, anzi, il diritto delle nazioni all’autodecisione è un tipico diritto democratico liberale. (…)
Proprio questo invece negano i teorici politicamente corretti del migrazionismo privo di limiti e regole. Tutti abbiamo pari dignità quindi ognuno ha il “diritto” di stabilirsi dove vuole, indipendentemente da qualsiasi limite, vincolo e controllo. Il mondo non deve avere confini, nostra patria è il mondo intero. Qui un universalismo fasullo nega una particolarità estremamente rilevante, negando in questo modo uno dei fondamentali diritti universali dell’uomo: quello, appunto, di riconoscersi in determinate nazioni, culture, civiltà.
D’altro canto gli stessi “no border” politicamente corretti rivendicano con forza la tutela delle particolarità nazionali, etniche e culturali all’interno dei vari stati, occidentali. Ognuno può entrare come e quando gli pare in Italia o in Europa, ma, una volta entrato, ha il diritto di difendere la propria particolarità anche contro e malgrado le leggi, i regolamenti, gli usi ed i costumi dei paesi ospitanti…


Da “Lo stato che non dovrebbe esistere”

Tutti si indignerebbero sinceramente se qualcuno dicesse che l’Italia, o la Francia, o l’Egitto non hanno diritto di esistere in quanto stati indipendenti, ma le cose cambiano se qualcuno dice che Israele non ha diritto di esistere in quanto stato. Di nessuno stato si dice oggi che ha diritto di esistere. E’ ovvio, scontato che la Russia o il Cile o qualsiasi altro stato abbiano diritto di esistere, non occorre ripeterlo. Per Israele no. Nel caso di Israele il semplice affermare il suo diritto all’esistenza scatena discussioni, dubbi, polemiche. (...)
La maledizione di Israele sta nella sua origine. La nascita di Israele è una macchia indelebile, una sorta di peccato originale (...) più radicali non si fanno troppi scrupoli: Israele è nato dalla cacciata dei palestinesi dalle loro terre, dicono, quelle terre devono essere ridate ai palestinesi, punto e basta. (...)

Chi ragiona in modo simile (e sono in tanti a farlo, anche nel democratico e laico occidente) commette, in primo luogo, un fondamentale errore di principio e, in secondo luogo, dimostra di ignorare la storia. L’errore di principio è abbastanza evidente. TUTTI i popoli di TUTTI gli stati del mondo occupano oggi terre che cinquanta, o cento o mille anni fa erano di altri popoli. La nascita di TUTTI gli stati è stata caratterizzata da violenze. (...) Se si dovesse contestare il diritto ad esistere di tutti gli stati la cui origine è stata caratterizzata da qualche violenza nessuno stato avrebbe oggi diritto di esistere.
(...)
Se proprio si volesse andare indietro nel tempo per stabilire chi abbia oggi il diritto di vivere in "Palestina" si dovrebbe concludere che gli ebrei e solo loro hanno questo diritto. Un tempo infatti  gli ebrei vivevano nella terra che oggi alcuni chiamano "Palestina" e in quella terra non vivevano i "palestinesi" (...
I primi coloni ebrei in Palestina si impossessarono della terra che intendevano colonizzare in maniera assai poco violenta: comprandola dai palestinesi. La compra vendita di terra proseguì per molto tempo, malgrado le pressioni di chi guardava con ostilità i nuovi venuti...